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Sentirsi a casa. Garetto: “Rimini, con te inseguo la mia felicità”

Rimini Garetto

Il centrocampista del Rimini Marco Garetto durante un'azione di gioco/Credit Photo: Rimini F.C.

Dall’intuito del nonno alla passione per il Torino e il viaggio granata; Belotti e De Silvestri, la Serie D, l’insegnamento di mamma e papà e l’amore: l’intervista al centrocampista del club romagnolo

Un po’ di frastuono. Non fastidioso. Anzi, rassicurante; coinvolgente. Di quelli nei quali, forse, in fondo, si rivede anche. Perché descrivono a pieno il contesto. O, forse, sono “il contesto”. “Inutile girarci attorno, qui mi sento come a casa. Si sta bene sotto ogni punto di vista: vivo benissimo, si mangia meglio (ride ndr.) e poi c’è il mare che disegna un’atmosfera unica”. Ci prova fino alla fine Marco Garetto, centrocampista 23enne del Rimini, a non perdere la sua encomiabile serietà e la sua compostezza, ma quando è il momento di descrivere le sue sensazioni non resiste. Si lascia andare. Sempre su quel fil rouge che guida tutta la sua storia: casa, calcio e famiglia.

Perché, in fondo, il concetto di ‘casa’ dipende da tanti fattori. È il luogo nel quale rifugiarsi. Nel quale è facile ritrovare sé stessi. Lì convergono emozioni contrastanti. Eppure, ‘casa’ non è solo dove si vive, è soprattutto dove ti capiscono. “La Romagna è come la vedi. È un territorio in cui tutti sanno farti sentire a tuo agio. Sono qui da un anno e mezzo e ancora mi stupisco per le speciali persone che incontro. È gente alla mano, con cui non puoi che trovarti bene. Vivere qui è un piacere. Sono certo che, quando tornerò tra quarant’anni, proverò le stesse sensazioni”.

Futuro. Non c’è nulla di più determinante nella vicenda di Marco Garetto. Avvenimenti, incontri, gioie e dolori si intersecano l’un con l’altro verso un’unica destinazione: la realizzazione di sé. Binari in apparenza separati innestati su sogni e concretezza. Dove luoghi, persone, parole e istanti segnano il tracciato di un viaggio di cui “immaginare il finale”. Per continuare a correre. E godere delle tappe. “Sono fierissimo delle scelte che ho fatto in questi anni. Sia delle delusioni che dei momenti belli: sono parte e fonte di ciò che sono oggi. Tutto ha avuto un suo significato e mi ha permesso di crescere”.

Tempo al tempo. “Il mio prossimo obiettivo è, senza dubbio, raggiungere la Serie B, ma senza fretta. Senza ansie di arrivare”. Calma. Ragionare. Garetto è come lo senti. Deciso. Conosce la destinazione. Ma non pretende. “Finché avrò la possibilità di giocare il mio obiettivo sarà solo migliorare”. Atteggiamento impresso da ‘maestri’ di cui non si può fare a meno: “I miei genitori mi hanno insegnato che quando si è felici non bisogna mai mollare”. Perché la felicità, in fondo, è merce rara. “Va preservata”.

Sensazioni ed emozioni: Rimini e Garetto, nuovi orizzonti sulla Riviera

Il bello di Marco è la sua capacità di cogliere solo il meglio. “Questa è la stagione più emozionante e ricca da quando gioco nei professionisti. E vale anche per la squadra. Abbiamo migliorato la posizione in classifica rispetto all’anno scorso e abbiamo vinto la Coppa Italia Serie C”. Risultati sul campo materializzati nelle sensazioni e nei sentimenti: “Il finale di stagione potrà regalarci anche altre gioie. I Play-off vogliamo giocarli esclusivamente per vincere”. Nato nel 2001, nel calcio dei grandi da soli tre anni e una maturità e una compostezza tale da far insorgere legittimi dubbi: “Il Rimini non merita, come spesso mi è capitato di sentir dire, di essere considerato una comparsa della stagione. O fortunata ad aver vinto un trofeo. Esistono le sorprese, certo, ma quando dentro al gruppo, nella testa dei giocatori e nei vertici della società c’è la consapevolezza dei propri mezzi non sei definibile sorpresa”.

Marco, ma forse pensare alla vittoria della post-season… “La differenza, in un torneo, la fanno anche le sensazioni e gli stati d’animo. Fin dal ritiro estivo ho percepito immediatamente le potenzialità per costruire un grande gruppo: ci siamo riusciti e fermarsi adesso non avrebbe senso”. Marco si immedesima. L’euforia sana e spontanea che avvolge la Riviera lo trascina. Ma con rigore. Con signorilità sabaudo come origini impongono. “A Rimini ci proveremo. La società ha investito molto nelle infrastrutture e nei progetti tecnici e questi sono tutti segnali indicativi”. Idee, lungimiranza e impresa. Inediti orizzonti dalle sponde dell’Adriatico. “Il nuovo centro sportivo (area ex Ghigi, zona Gaiofana cfr.) ha richiesto un investimento importante e non c’entra nulla con la Lega Pro”. Già: si lascia andare. “Il desiderio e la volontà convergono verso aspirazioni maggiori”. “

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Il centrocampista del Rimini Marco Garetto/Credit Photo: Rimini F.C.

“Torino sei unica”

Comincia tutto dalla ricerca di sentirsi bene. Nella massima libertà. Avvolto dallo sfondo più dolce: casa. “Ho iniziato a giocare intorno ai cinque anni per merito di papà e nonno”. Nasce in una città, Torino, dove il calcio è una questione identitaria. “Dubbi nella scelta non ne avrei mai avuti (ride ndr.). Il Torino è una questione di famiglia. Mio padre è da sempre un tifoso del Toro e mi ha passato questa passione fin da subito”. Il legame tra Marco e il pallone: una lunga e costante ricerca di sicurezze. Casa.Mio papà è stato il primo a portarmi allo stadio e farmi innamorare del calcio”. Sempre più indietro. “Ma quando decisi di iniziare a giocare fu mio nonno a prendermi di forza per fare un provino alla Scuola calcio del Torino”. Esperienza e intuito di un’altra epoca. Dai Pulcini alla Primavera sono sempre stato riconfermato”. Anno dopo anno coltiva la sua consapevolezza. Rende omaggio al destino. A chi lo rende possibile e ai suoi regali: uno Scudetto Primavera. E riconosce l’importanza e il peso del vissuto. “Indossare quella maglia è stato un onore indescrivibile. Era la mia seconda pelle. Sai, è quella classica maglia del cuore che puoi solo immaginare. Quando la metti realizzi quanto sia diverso. Non riesci a renderti conto del valore che ha finché non la lasci”. Un sogno sfiorato. Nella realtà dove Marco e Garetto si congiungono alla perfezione. Nel segno del Toro.La prima volta che mi hanno chiamato per un allenamento con la prima squadra ero fuori di me”. Casa: è lì che vanno celebrate le soddisfazioni. “Non ci ho pensato un attimo. Sono corso dai miei genitori per dirglielo. Ero tesissimo, sentivo l’ansia salire”.

Euforia e consapevolezza si mescolano. “Sono arrivato al campo e ho iniziato a giocare e allenarmi senza pensare a nulla”. In equilibrio tra fantasia e realtà. “Stavo giocando con i miei idoli. Con i calciatori che accompagnavano le mie domeniche e per i quali soffrivo e gioivo nella speranza di una loro vittoria”. Quella linea rossa scorre liscia sul prato del Filadelfia. “Il mio unico pensiero durante gli allenamenti era dare tutto me stesso affinché quei campioni potessero allenarsi al meglio”. Educato. Rispettoso. Coglie il bello con misura. Lorenzo De Silvestri era un punto di riferimento per noi giovani. Prestava grande attenzione al settore giovanile e a chi si approcciava alla prima squadra”. A 18 anni, però, tolta la sciarpa e sceso dagli spalti del Grande Torino gli occhi si illuminano verso una sola direzione. “Andrea Belotti? Un esempio incredibile. Non mollava mai. Era il capitano perfetto. Trovava una parola buona per tutti. E per noi giovani era fonte di grandissima ispirazione. Perché in lui riconoscevi quella fame di arrivare che alimentava le nostre speranze, le nostre ambizioni”. Osservare. Concentrare le proprie energie nel capire come approcciarsi. Cogliere i segnali e da quelli instaurare la propria crescita.“Sono rimasto impressionato dalla molta considerazione dell’allenatore Walter Mazzarri. Era lui in persona a sollecitare la nostra aggregazione alla prima squadra”. Un sistema coeso: “Persona fantastica era anche il suo vice, Nicolò Frustalupi: aveva un tatto particolare con i ragazzi del vivaio. Aveva un approccio e una capacità di coinvolgere ciascuno di noi tale da imprimere la sensazione di essere sempre stati lì”.

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Il centrocampista del Rimini Marco Garetto in azione/Credit Photo: Rimini F.C.

Imparare

Conoscere, sperimentare, allontanarsi. Fattori che conducono a una più profonda analisi del passato e di sé stessi. A esprimere giudizi. Forse, a cercare spiegazioni. Anche per affievolire rammarichi che, come giusto che sia, non ammetteremo mai. “Il Torino ha sempre avuto squadre under molto forti. Anche nelle mie annate il vivaio era validissimo. Ma l’aspetto diverso rispetto ad altri settori giovanili italiani era che in pochi giocatori riuscissero a fare il salto definitivo dalla Primavera alla prima squadra”. Così raro che la memoria di Marco scomoda esempi pesanti: “Ad oggi l’unico è Buongiorno. Un giocatore che, senza dubbio, è di valore mondiale, ma che evidenzia questa tendenza”. Vita e carriera sono percorsi solo in apparenza paralleli. “Mi mancano quelle emozioni. Speravo potessero continuare per sempre, ma ognuno ha la sua strada. Non possiamo controllare lo scorrere degli avvenimenti, ma rimarrà una parentesi speciale e unica”. Crescere, infatti, significa anche avere il coraggio di scegliere e cambiare. Soffrendo per imparare. “La prima esperienza lontano da Torino non è stata facile. Ero abituato a vivere in casa con la famiglia, a uscire con gli amici di sempre e da un giorno all’altro mi sono ritrovato a migliaia di chilometri di distanza”. Il primo anno fra i dilettanti di Marco è a Messina. Un contesto sconosciuto. Tra dubbi e timori. “Non è stato facile abituarsi al calcio dei grandi. Anzi, al calcio vero”.

Le ‘comodità’ di un vivaio di una società di massima serie sono fuorvianti. La misura della realtà risiede nelle frange più umili. “Sono grato di aver vissuto esperienze professionali in Serie D. Il campionato, ma anche un banale allenamento con i compagni adulti ti mettono davanti agli occhi situazioni impossibili da vedere in una Primavera. A Messina, come ad Acireale, ho frequentato spogliatoi dove negli occhi dei giocatori il desiderio e la grinta per scendere in campo trovavano ragione in valori più alti”. Passione e dovere: unica sostanza. Necessità e virtù. “Scendevano in campo per le loro famiglie, col pensiero di trasformare quei novanta minuti in qualcosa di utile e concreto per la vita quotidiana. E se vuoi sfondare devi partire da quella mentalità”.

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Il centrocampista del Rimini Marco Garetto durante un’azione di gioco/Credit Photo: Rimini F.C.

Legami, sicurezze e confronto con sé stesso: Garetto insegue la felicità

I dilettanti sono il momento in cui fermarsi a riflettere. Per guardarsi attorno. Finché il destino non prende il sopravvento. “Dopo poche partite subii un infortunio molto grave che mi costrinse a stare fermo sette mesi”. Tutto crolla. La giovane età non aiuta. Mancano i riferimenti. Quei sostegni silenziosi e indistruttibili che fino a ieri sono parte integrante della struttura di Marco. “Ho tentennato. L’idea di mollare tutto ha tormentato i miei pensieri quasi ogni giorno in quei mesi. Quando alla prima esperienza in Serie D all’improvviso smetti di giocare per così tanto tempo, sei immobile; non reagisci. Le domande ti assalgono: che ne sarà di me quando sarò guarito? Riuscirò a riprendere la mia forma? Quanto ci metterò? E poi?”. Ricorrenti. Snervanti. Passato e futuro contro il muro del presente. “La mia forza sono stati ancora i miei genitori. Mi hanno sempre spronato, mi hanno assecondato: sono stati fondamentali”. E quell’insegnamento che oggi è benzina inesauribile. Mi hanno ripetuto con costanza che dovevo seguire la mia felicità: se fossi stato sicuro di tornare avrei dovuto continuare le cure, le terapie e non arrendermi”.

La dolce affermazione dei sentimenti. E di una percezione che non vuole spiegazioni. “D’altronde non avevo un ‘piano B’, forse, lo sapevano anche loro. Nella mia testa ho sempre avuto solo la voglia e la fame di diventare calciatore. Poi certo, se fossi stato costretto a lasciare il pallone mi sarei adeguato: avrei continuato gli studi post maturità scientifica e chissà…”. La vita è così. Mette alla prova. Porta allo scontro con noi stessi. “Avere una famiglia che mi segue ogni domenica, che tifa per me, che si preoccupa per la mia salute ogni giorno è la sicurezza più forte. Perché so che ci saranno sempre”. Al resto penserà l’amore. E quello sì, non lo controlli. Ma, forse, è giusto così.La mia fidanzata mi ha cambiato la vita. Conviviamo, siamo sempre insieme e sono convinto che, ormai, mi conosca meglio lei di quanto mi conosca io (ride ndr.): coglie subito i miei momenti di sconforto. È un sostegno ineguagliabile”. Il frastuono che avvolge la Riviera romagnola si fa sempre più incessante. È quasi ora dell’happy hour. Ce lo insegna Marco Garetto: seguire la felicità. Da Torino alla Sicilia fino alla Romagna “Non c’è fine. Non c’è inizio. C’è solo l’infinita passione per la vita” – dice chi a Rimini scrive la storia. No Marco, non è un film.