Consapevolezze – Ladinetti: “Questione di cuore”

Credit: US Pontedera
È l’estate del 2021. Luglio per la precisione. La nuova stagione con il mio Cagliari sta per partire. È quella della svolta, lo sento. Sono pronto. È il giorno delle visite mediche. “Riccardo fermati subito, scendi dalla cyclette”. Scusate, in che senso?
Sono appena tornato dal prestito all’Olbia. Un’esperienza positiva in cui ho molto bene. Il ds Capozucca mi ha chiamato per dirmi che avrei avuto spazio e che mi vogliono tenere con loro. Poi sono arrivati quei test. Durante un esercizio sotto sforzo, il dottore mi ferma subito. Qualcosa non va. Mi trovano un problema cuore, ma non si capisce bene di cosa si tratta. Buio. Questo è l’inizio del mio incubo. Mesi di disperazione.
È tutto così incerto. Inizio a fare visite. Milano, Villa Stuart e poi a Padova dove mi trovano delle extrasistole. Le ho da sempre, mi dicono. Alcune creano problemi, altre no. Mi hanno fermato in tempo per fortuna. Sono dovute al Covid che mi ha causato delle aritmie. Non me l’aspettavo. Alla fine quelle in ritiro sono visite di routine. Mai avrei pensato di ritrovarmi così, lontano dai miei compagni. Lontano dal mio pallone.
“Devi stare fermo 3 mesi, hai un problema al cuore”. Un velo nero cala su di me. La preoccupazione aumenta. L’ansia inizia a salire. La testa mi gira. Sto per svenire, lo sento. “E ora cosa faccio?”. Giorni dopo arriva la chiamata del dottore per comunicarmi tutto: scoppio a piangere. In un secondo la mia vita è cambiata. Anni di sacrifici, sogni che mi stavo costruendo. Tutto finito. “Perché a me? Perché quest’anno che sarebbe potuto essere quello della svolta?”.
La testa si riempie di domande, la confusione è una presenza costante in me. “Quando rientro? Cosa mi troveranno?”. Ho vent’anni, non ho idea di cosa mi succederà. I miei compagni sono già in ritiro, sto buttando via tempo. Mi sarei potuto mettere in mostra, invece sono a casa. Per mesi e mesi.
Ripartire non è stato semplice, credetemi.
Cadere. Rinascere
Ho paura di dover smettere. Non so se e quando potrò tornare a giocare. Mi hanno detto solo di fermarmi per tre mesi, non che prima o poi avrei potuto riprendere. Dipenderà dai controlli successivi. Ho passato una vita intera a inseguire quel sogno e tutto sta per svanire. “Se non gioco a calcio cosa faccio? Non so fare molto altro”. Sono un’altra persona. Infelice, scontroso con tutti, non sorrido più. Cosa mi sta succedendo? Non sto toccando la depressione, ma vivo un forte malessere. La notte non dormo, partono pensieri infiniti. Arrivo così fino alle 4 di mattina, ogni giorno. Mi alzo nel pomeriggio, mangio male, non voglio parlare con nessuno. Purtroppo quando ho un problema mi chiudo in me stesso. Devo risolvermi da solo le mie cose. Faccio fatica ad aprirmi, non riesco. E sto davvero malissimo. Il pallone, la maglia del Cagliari… così vicini, così lontani. Sono svuotato.
Sono passati tre mesi: intravedo la luce. Ricordo bene il giorno in cui mi avevano comunicato che sarei potuto tornare. Dopo un nuovo controllo a Padova mi danno l’ok. Una liberazione. Ho atteso quel giorno con tutto me stesso. Nei giorni prima ho provato un senso di ansia incredibile. In testa, così piena di pensieri. Nella gola, da toglierti il respiro. Nello stomaco, così svuotato e al contempo pesante. Giornate tremende. Poi arrivo dal dottore. Lui è di ghiaccio, non lascia trasparire nulla. “Riccardo, puoi riprendere”. Scoppio a piangere. L’incubo è finito. Sono di nuovo in campo. Che bello. Ero tornato a respirare. Aria.
Radici
Posso continuare a credere nel mio sogno. Mi era stato portato via. Me ne sono riappropriato. Con paura, fatica, sacrifici. Qual è il mio sogno? Vivere una vita con la maglia del Cagliari. D’altronde non poteva essere altrimenti per un ragazzo nato a Salluri, un piccolo paese in Sardegna. Avevo iniziato nel parchetto della scuola sotto casa. Poca erba e due alberi perfetti per una porta. Dall’altra parte due cassonetti e il campo era fatto. Ci passavamo le giornate. Cemento, botte, sbucciature. C’è chi faceva Kakà, Messi, Dida. Chi ero io? Ronaldinho, lo amavo. Era un calcio autentico, un po’ mi manca. Lì sono nato io. Lì è nata la mia passione per il pallone.
Ed ero nella mia Sardegna, la mia casa. Vedete, è complicato spiegare cosa significhi essere sardi per chi non lo è. Abitiamo in un’isola lontana dalle altre regioni. Respiri un’aria diversa. Siamo un popolo con una propria identità e cultura. E se nasci qui il tuo sogno è solo uno: vestire la maglia del Cagliari. Io in parte l’ho realizzato. Ero un bambino quando andavo in curva con mia mamma. Sì, mia mamma. Dovreste vederla, una tifosa sfegatata. Quante volte al Sant’Elia insieme a lei. In campo c’era Agostini, assomigliava parecchio a mio papà. Il mio amico gli urlava “vai Tore”, il nome di mio padre. Anni dopo, Agostini me lo sono ritrovato come allenatore. I giri della vita.
Cagliari mio
Ho iniziato a giocare nel Salluri a 5 anni. A 11 sono andato a fare un provino a Cagliari. Dopo due partite mi selezionano. Stiamo andando al mare, arriva una chiamata mamma. “Abbiamo scelto Riccardo”. Che emozione. Io un figlio di Cagliari, un figlio della Sardegna. Il senso di appartenenza è sempre stato fortissimo. E pensare che nel terzo anno in Primavera sono diventato pure capitano. Sensazioni impagabili. È una squadra che ti resta nel cuore. Per il suo spirito, i suoi tifosi, la sua essenza. Chi passa di qua non se lo dimentica.
Nel corso del tempo ho conosciuto grandi campioni e grandi uomini. Un esempio è Barella. Una persona incredibile. Ha sempre cercato di coinvolgere noi giovani. Anni dopo, in un Cagliari-Inter viene da me ad abbracciarmi e salutarmi. Persona vera. Lui come Cigarini, il mio riferimento. E negli anni sono riuscito anche ad arrivare in prima squadra. Nella prima stagione in Primavera la prima convocazione. Finita la rifinitura, arriva Canzi: “Domani giochi con noi, poi vai a Torino con la prima squadra”. “Ma come? Impossibile”. Due anni dopo l’esordio. Dopo diverse convocazioni, ecco la partita contro il Sassuolo. Perdevano 1-0. A fine primo tempo Zenga si girò verso di me: “Ladi scaldati che entri”. Mi tremano le gambe, non mi sembra vero. Poi gioco titolare contro l’Udinese e contro il Milan. Da Salluri a San Siro, che roba.
Arrivederci
Al Cagliari ho dovuto dire addio. Ero stato vicino a lasciarlo già nell’estate del 2020. Il club voleva Nainggolan e aveva offerto all’Inter una base economica più delle contropartite. L’unica a cui l’Inter era interessata ero io. Ma c’era una differenza nella valutazione del mio cartellino. Giorni e giorni a trattare. L’ultimo giorno di mercato ero a Milano, si poteva chiudere nelle ultime ore. Alla fine sono rimasto a Cagliari. L’addio arriva nel 2022. L’addio alla mia casa. Una parte del mio cuore rimase lì, per sempre.
Ecco l’estate del 2022. Passato il prestito all’Olbia dopo il problema al cuore, sono tornato a Cagliari che intanto era sceso in B. Penso di rimanere in rosa. “Non resterai qui”. I loro piani, invece, sono diversi. Non sono d’accordo su quelle che sono le loro idee e piani. Capisco che è giusto prendere un’altra strada, anche a costo di cambiare o rinunciare anche al mio sogno più grande: giocare con la maglia della squadra del mio cuore. Non sento la loro fiducia. Devo andarmene: “Facciamo la risoluzione”. Sono deluso. Non pensavo finisse così. Amavo quei colori e li amerò per sempre. Ci è voluto coraggio, ma è la scelta migliore per me.

Occhi, piedi e cuore
Dopo l’addio al Cagliari ho scelto il Pontedera. Quinto posto, playoff e record di punti. Una grande stagione. Poi la scorsa stagione ecco la firma di un triennale a Catania, ma non è andata bene bene, anche per responsabilità mie. Una delle piazze più difficili dove giocare. Le aspettative sono alte, se i risultati non sono positivi la situazione inizia a pesare. A gennaio decido di cambiare e vado a Taranto. Mi sono innamorato di quella città. Merita tutt’altro. Mesi epici, ho ricordi clamorosi. In estate è arrivata la risoluzione con il Catania e sono tornato a Pontedera. È stata una stagione importante. 2 gol e 11 numeri sono grandi numeri per un centrocampista.
Ora spero di riuscire a fare il salto e giocare in Serie B. Se penso al mio passato so che sarebbe potuto andare diversamente. Ma se non sono in Serie A non è per colpa del problema al cuore. Sto facendo un percorso diverso. Più lungo, più graduale. Oggi se riguardo indietro mi dico bravo. Non è stato facile rimanere in piedi. Prima con il problema al cuore, poi nel dire addio alla mia casa. Ma ce l’ho fatta. Da un paesino di 8mila abitanti a San Siro, che viaggio. Ripensare da dove sono partito è stata la mia forza. La mia Sardegna, il mio campetto, la mia terra. Sono le mie origini, sono parte di me e della mia anima. Continuo a lavorare e a sognare. Con gli occhi, i piedi e il mio cuore. E un giorno, chissà, tornare a vestire la maglia del mio Cagliari. Tornare a recuperare quella parte di cuore lasciata custodita in quei colori.