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Consapevolezze – Mustacchio: “Il mio sorriso silenzioso”

Mattia Mustacchio - foto Berardi / U.C. AlbinoLeffe

Il calcio è divertimento. Il calcio è passione. Non bisogna mai dimenticarselo.

L’avevo imparato da bambino, fin dal primo giorno. Senza nessuna lezione particolare. Era bastato stare un po’ solo con lui, il mio pallone. Come quando da piccolo scavalcavo la cancellata del campetto davanti a casa mia e calciavo per ore in porta. Però vedete, quando si cresce non è così semplice. Aumentano le pressioni, le persone che ti circondano, le aspettative. E ci si dimentica più facilmente di quel bambino che ce in noi. E ci sono stati momenti della mia carriera che mi sono dimenticato di quale fosse la vera essenza di questo sport. Ma ci torneremo.

Sono stato fortunato. Sono stato fortunato perché ho avuto persone che hanno creduto in me e mi hanno dato la libertà di seguire la mia passione e provare a raggiungere il mio sogno. I primi sono stati mamma e papà. Erano due operai. Ho avuto la fortuna di avere una famiglia che mi ha trasmesso valori puri e autentici che mi hanno permesso di non dimenticare da dove arrivassi. Sacrifici, lavoro, umiltà. Un esempio quotidiano. I miei genitori mi hanno sempre chiesto di divertirmi, portare rispetto nei confronti degli altri e essere una brava persona. Valori semplici, ma la semplicità è ciò che mi ha permesso di diventare quello che sono.

E loro sono sempre stati al mio fianco, ma in modo discreto ed equilibrato. Ho ancora negli occhi il sorriso di mio padre al mio esordio… era un sorriso silenzioso. I miei genitori sono stati così. Mi hanno accompagnato, ma in silenzio. E poi ci sono quelle persone della Voluntas a Brescia. Mi hanno aiutato senza voler nulla in cambio. Solo per permettere a un bambino di credere in quel sogno. Come il mio allenatore Facchinetti. Tante volte dopo l’allenamento nessuna poteva venirmi a prendere. Lui mi portava a casa, cenavo con la sua famiglia e poi papà veniva a prendermi.

Sono stati gesti che mi hanno permesso di essere chi sono. E a distanza di anni mi riesci ad apprezzarne e capirne l’importanza. Se ripenso ai miei genitori, alle figure della Voluntas, a quei gesti mi commuovo. Sono ricordi che ti segnano. Persone che mi hanno permesso di arrivare qui. E l’hanno fatto per amore e affetto nei miei confronti, non per altro. Il mio viaggio è anche per loro. Per loro e per gli amori che poi la vita mi ha donato: mia moglie e mia figlia.

Mattia Mustacchio – foto Berardi / U.C. AlbinoLeffe

Prime volte

Sono belle le prime volte. Sorprendenti e a volte incerte. Ti aprono nuovi scenari. Ti cambiano, ti fanno crescere. Positive e negative. Come il 29 gennaio 2009, quando ho esordito in Seria A con la maglia della Samp. Ricordo ancora quel giorno che mio padre era venuto a trovarmi. Ero in casa con Marilungo. “Ragazzi, credeteci. Il momento arriverà”. A noi pareva impossibile. Invece è successo. Lì ho capito di potercela fare. È stato uno stimolo a impegnarmi ancor di più. “Corri Mattia, corri forte”.

Oppure la doppietta alla Spagna al Mondiale U20. Non lo dimenticherò mai. Sento ancora la voce di Caressa. Nessuno si aspettava che potessimo vincere quella partita. È finita 3-1 per noi. La Nazionale per me è stata fondamentale. Soprattutto negli anni dei prestiti. Stavo facendo fatica, andare con l’Italia mi ha aiutato a ritrovarmi, credere in me stesso. Mi ha tenuto a galla.

Aspettative

E poi ci sono anche le prime volte più negative. Quelle che ti spiazzano, a cui non sei pronto e preparato. Nessuno ti insegna ad affrontarle. Per me è stato così negli anni dopo la Samp con i tanti prestiti. Anni tormentati e difficili. Non riuscivo a dare ciò che la gente si aspettava. Chi io stesso mi aspettavo di essere. Ma non ero pronto. E il calcio non è un mondo che ti aspetta. Quando fai molto bene ti aspetti di continuare a farlo. Quando non succede inizi a chiederti perché, la testa ti si riempie di pensieri. Senti il peso della pressione, ti domandi cosa c’è che non va. Tutto insieme. Tutto. E succede tutto in modo irrazionale, senza riuscire a mettere un ordine ed equilibrio. Crei caos e il caos te lo porti anche in campo. Avevo perso la bellezza del giocare.

Avevo esordito in A al fianco di campioni. E poi eccomi, non ero più io. Ho avuto la fortuna di avere con me i miei amici di sempre. Ed ero consapevole i sacrifici fatti dalle persone a me vicine per permettermi di avere la possibilità di realizzare il mio sogno. Questo mi ha permesso di andare avanti. Non potevo mollare. Non potevo per loro e per me. È stato pesante perché quel momento è durato per tanto tempo. Non riuscivo a essere me stesso. Volevo farcela, ma inconsciamente ho pensato che potessi non arrivare. “Magari non diventerò mai un calciatore”. Il motivo? Mi mancava quella serenità che ho poi trovato con mia moglie e con la fiducia dell’allenatore. Sono tornato a essere quel bambino che scavalcava la cancellata per giocare. Prima pensavo troppo. Ho capito che avrei dovuto iniziare a concentrarmi solo sulla mia vita, sullo stare bene e sul divertirmi. Se sei sereno lo senti, lo vedi. È una condizione dell’anima che ti fa affrontare la vita in modo diverso. È stato fondamentale l’incontro con mia moglie. Mi ha fatto conoscere me stesso. E mi ha aiutato a ricordare una cosa: il calcio è puro divertimento. Forse me lo ero dimenticato. Mi ero dimenticato di quella lezione imparata da bambino.

Mattia Mustacchio – foto Berardi / U.C. AlbinoLeffe

Rinascere, conoscersi

A Vicenza sono rinato. Sono rimasto dopo la retrocessione. Quell’estate ho conosciuto mia moglie, con lei ho iniziato a intravedere un futuro. E poi l’allenatore mi voleva lì, mi ha convinto a rimanere ed è stata la stagione della mia consacrazione. Un anno in cui sono tornato a essere me stesso. Semplicemente me stesso. Una sensazione bellissima. Ero tornato a respirare. Mia moglie mi aveva donato serenità. E quello si vedeva anche in campo. Dopo Vicenza sono andato ad Ascoli. Anzi, siamo andati. La città ci ha accolto come figli. Era quello che cercavo. Non sarei mai voluto andare via. Siamo andati via piangendo. Siamo partiti la mattina. È stata l’unica volta che ho visto mia moglie in lacrime per il dover lasciare una città.

Poi è iniziata l’avventura con la Pro Vercelli, tornando in B. Una piazza che vive di calcio e che mi ha permesso di esprimermi. A gennaio sono andato a Perugia, un’opportunità per entrambi. Per me dal punto di vista sportivo, per loro dal punto di vista economico. Quell’anno è stato un mio grande rammarico. Quella semifinale playoff persa con 18mila persone… saremmo potuti andare in A, ne sono sicuro. Ci credevo. Vedevo la A lì vicino. È stata una batosta, ci ho messo un pochino a riprendermi. Ma sono situazioni che ti formano. Mia moglie è stata fondamentale. Mi ha dato il sostegno e la forza per ripartire. “Ci si rialza e ci si riprova”.

Consapevole

Mi ha fatto conoscere una versione diversa di me stesso. Una serenità che mi permetteva di vedere gli obiettivi in modo più lucido. Gli obiettivi e anche le delusioni. Dopo quella stagione sono arrivati un infortunio muscolare grave che mi ha impedito di giocare un playoff e poi la retrocessione a Carpi. Sembrava che fossi in fase calante, una volta ancora. Ma questa volta ero pronto. Pronto per affrontarla. Avevo trovato la mia serenità e il mio equilibrio mentale. E a Crotone sono rinato, conquistando la promozione in A. È stata una possibilità per fermarsi e vedere quanta strada avessi fatto. Un momento per dirmi bravo. Dopo tante difficoltà ero riuscito ad arrivare lì. Il dispiacere è stato non riuscire a giocare in A.

Qualche mese dopo è nata la mia bambina e io ho conquistato un’altra promozione ad Alessandria. E l’ho fatto davanti a lei allo stadio, l’emozione più grande. Mi ha aiutato ad apprezzare più il senso della vita e delle piccole cose e ad affrontare le difficoltà che sono arrivate. Dopo la retrocessione ad Alessandria sono tornato a Vercelli, ma i primi mesi non sono andati bene. A gennaio sono andato a Cesena. Lì ho vissuto uno dei momenti più duri. In semifinale playoff ho sbagliato il rigore decisivo. Tutto è diventato nero. Il mondo mi è caduto addosso. Da quella batosta ho fatto fatica a riprendermi. La batosta più grande della carriera. Era troppo importante. E io avevo sbagliato. Ci ho messo un po’ a riprendermi.

Fiducia

I giorni dopo fissavo il muro. La testa continuava a riempirsi di pensieri. Incessanti, continui. Perché ho anche pensato di smettere. “È arrivata la fine?”. Per fortuna ho avuto la mia famiglia. Una parte di me ha pensato di smettere. Arrivavo da mesi duri. Poi c’era un’altra parte di me che mi ha spinto a non mollare. Dossena è stato fondamentale. Durante l’estate mi aveva chiamato. Avevo percepito da subito la sua vicinanza e stima. Sono andato in ritiro a Vercelli con i postumi di quel rigore. E in teoria ero in uscita. Allenamento dopo allenamento le cose sono cambiate.

E devo dire grazie a Dossena. Sentire la sua fiducia mi ha aiutato a recuperare quella in me stesso. È stato l’allenatore più importante che ho avuto. Tornare a respirare è stato bello. Ho ritrovato la gioia del calcio. Percepivo la fiducia dei miei compagni nei miei confronti, mi ritenevano una figura importante nello spogliatoio. Quel rigore a Cesena mi aveva svuotato. Tutte queste sensazioni mi hanno fatto risentire importante. Essere stato capitano e bandiera, un onore per me. Poi c’è stata l’esperienza all’AlbinoLeffe. Una realtà importante, ideale per lavorare in modo tranquillo e ragionato. Ora sono pronto per una nuova avventura. Mi piacerebbe vincere un altro campionato.

Amori miei

Quel bambino ce l’ha fatta. Ce l’ho fatta anche per le persone che ha incontrato lungo il viaggio. Mia moglie, la persona più importante della mia vita. Una donna fantastica. Ricordo il giorno in cui l’ho conosciuta. Era finita la stagione, papà era venuto a Vicenza. Mi aveva chiesto di andare a prendere un caffè e siamo finiti nel bar in cui lei lavorava. Ha sempre creduto in me e nei miei sogni. Mi ha fatto sentire apprezzato. Mi ha spronato a non accontentarmi, mi ha donato la serenità, il dono più prezioso. “Puoi farcela”.

Poi siamo diventati genitori. Essere papà è la gioia più bella che una persona possa vivere. Vedere la mia bimba allo stadio è un’emozione unica. Voglio che mia moglie e mia figlia possano essere orgogliose di me. E cercherò di farle capire che se vorrà raggiungere qualcosa potrà farlo. Con impegno e credendoci, potrà realizzare i suoi sogni. E io, come ha fatto il mio con me, sarò al suo fianco per aiutarla. Con un sorriso silenzioso.