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Consapevolezze – Rossi: “A testa alta, fino alla fine”

Credit: L.R. Vicenza

La ricordo quella domenica. La ricordo bene. In qualche modo mi ha cambiato la carriera. E dentro quel momento si racchiudono i significati e le storie di una vita. La mia vita. La vita di Fausto Rossi.

Nel settore giovanile della Juve ero entrato a 5 anni. Durante il primo anno di Allievi non giocavo molto. Avevo la sensazione che potessero mandarmi via a fine stagione. Non ero stato convocato per un torneo in Francia e mi avevano mandato ad allenarmi con quelli più grandi. Dopo quell’allenamento l’allenatore Storgato, che mi avrebbe avuto l’anno successivo, ha deciso di tenermi. Ed è andata bene. Fiducia, rendimento alto, libertà di essere me stesso. Grazie a quel giorno.

Ma quel giorno è importante anche per un altro motivo. È stata l’unica volta che mio padre mi ha accompagnato a un allenamento. In settimana lavorava, i weekend preferiva delle passeggiate in montagna per staccare. Quella domenica, invece, aveva deciso di portarmi. Un viaggio in silenzio. Lui era così. Uomo d’altri tempi. Averlo alla rete a osservarmi era strano. Bello, ma strano.

Io da quel campo ora ci passo quasi sempre quando sono a Torino. Ora è di proprietà del Toro. Ci si allenano le giovanili granata. Proprio la squadra di cui papà era tifoso. Anni dopo io sono diventato un calciatore. Sono diventato genitore e accompagno i miei figli agli allenamenti. Anni dopo i miei genitori sono morti. Si erano ammalati a pochi mesi di distanza. E a pochi mesi di distanza se ne sono andati. E quando ripasso davanti a quel campetto, ripenso a tutto questo.

Erano due persone diverse mamma e papà. Per carattere, età, modi. Ma grazie a loro sono l’uomo che sono oggi. Grazie a loro sono riuscito a stare lontano dalla strada e dai suoi pericoli, diventare un calciatore e un uomo con dei valori importanti. Quei valori che cerco di trasmettere ai miei due bambini. Senso del lavoro e del sacrificio, rispetto, il vivere di emozioni positive. Perché, alla fine, io vivo di quelle. E così vivrò. Fino alla fine.

Torino

Sono nato e cresciuto qui, in un quartiere popolare nella mia Torino. Il primo ricordo che ho con un pallone è di quando ero molto piccolo. Ho una foto bellissima di quando avevo forse un anno davanti a casa della nonna nelle vallette, il quartiere popolare dove sono cresciuto a Torino. Una foto in cui indosso una maglia della Juve con il numero 10. Era destino. Non riuscivo a stare a dormire senza un pallone nel letto o a tavola con la palla tra i piedi. A calcio ci gioco da sempre. È stato amore a prima vista. Da piccolo giocavo con gli amici nel cortile davanti a casa, si facevano le porte con i bidoni o le pietre, si usava qualsiasi tipo di pallone che spesso finivano sulle rotaie dei tram. Ricordi di infanzia bellissimi.

Crescere in un quartiere popolare è particolare. Riesci a comprendere certe difficoltà che la vita può darti. Ho avuto la fortuna di avere una famiglia che mi hanno tenuto lontano dalla strada, dalle scelte sbagliate. Le tentazioni in strada possono essere tante. Diversi amici hanno preso vie sbagliate. I miei genitori e il calcio mi hanno salvato. Più stavo al campetto o all’oratorio e più stavo lontano dai pericoli. Ho sempre cercato di evitarli. E vedere i sacrifici dei miei genitori è stato fondamentali. Esempi e lezioni di vita.

Bianco e nero

La Juve era nel mio destino. La prima partita vista allo stadio è stata al Delle Alpi. Giocarci era il mio sogno. Mi ha notato un osservatore bianconero mentre giocavo sotto casa della nonna. A cinque anni mi hanno chiamato per un provino. Ero piccolo fisicamente, ricordo i giacconi invernali che mi andavano enormi. È stato un percorso bellissimo che mi ha formato come calciatore e persona. Una scuola di vita. Ero un ragazzo juventino e torinese che vestiva da sempre quei colori. Quella maglia era una seconda pelle, un modo d’essere. Purtroppo, non sono riuscito a coronare questo percorso con l’esordio in prima squadra. In quel periodo era impossibile trovare spazio con quei giocatori. Forse in un altro momento storico ci sarei riuscito, chissà.

Ma ho avuto la fortuna di allenarmi con dei campioni. Del Piero, aveva un’aura unica. Una buona parola sempre per tutti. L’umiltà del campione. A volte mi chiamava per provare con lui le punizioni. Io quasi mi vergognavo di farlo davanti a un fuoriclasse del genere. Poi il centrocampo con Pirlo, Marchisio, Vidal e Pogba. La fame e l’ossessione per la vittoria di Conte. Ricordo ancora la sua sfuriata per un pareggio contro l’Inter durante una tournée. Già, l’Inter. Ci ho giocato contro nel Trofeo Tim. Una partita speciale. Avevo fatto bene. Iniziavano a girare voci sul mio nome. All’improvviso tutti si erano accorti di me, ero visto come una delle nuove promesse del calcio italiano. Gli elogi portano con sé tante aspettative. Se sei giovane e non sei abituato, non è così semplice gestire tutto. Non l’ho vissuta male come situazione, ma probabilmente non ero in grado di reggere e vivere con continuità a quelle luci. Ognuno ottiene ciò che si merita. Forse non ero pronto per quella dimensione.

Credit: L.R. Vicenza

8 marzo 2014

Giocare in Liga era un mio sogno. Ho sempre ammirato il Real, poter vivere il calcio spagnolo era un mio obiettivo. Quella con il Valladolid è stata un’esperienza bellissima. 8 marzo 2014. Un giorno che ricorderò per sempre. Dovevamo giocare contro il Barcellona. Solitamente in Spagna si taglia e bagna sempre l’erba. Quella volta si era deciso di non farlo, per provare a mettere in difficoltà i blaugrana. Xavi a fine partita si era lamentato di questo. “Il campo è uguale per tutti”, la mia risposta a chi mi chiedeva di commentare le sue parole. Oggi non lo rifarei.
Ma torniamo alla partita. Non vi ho detto com’era finita: 1-0 per noi con un mio gol. Indescrivibile.
La mia unica rete con quella maglia segnata contro il Barcellona. Un ricordo indelebile.

Qualche ora dopo mi era arrivato un messaggio di Bronzetti. Mi voleva comunicare l’invito da parte del Real a una loro partita. Un modo per ringraziarmi per aver fermato il Barcellona. Sono andato a vederli contro il Levante. Ora non lo rifarei. Poi sono stato in Romania ho avuto un grave infortunio, la rottura dei tendini del retto femorale. Un momento complicato. Era un problema fisico non comune, non sapevo cosa avrebbe comportato. Ero spaventato. Dopo sei mesi sono tornato in campo, ma il presidente aveva deciso di mettermi nella seconda squadra. Pensava che non sarei più tornato quello di prima. In me c’era la volontà di dimostrargli il contrario. Stavo facendo bene, poi è arrivata la ricaduta di mamma. Ho deciso di risolvere il contratto e tornare in Italia. Ho pensato di smettere. L’infortunio, la situazione di mia madre… mi sembrava la scelta da prendere. “Cosa devo fare? Devo dire addio al calcio?”. Continuavo a pensarci. Ma non volevo piangermi addosso. Porto con me un insegnamento di Silvio Baldini: “Ci sarà sempre qualcuno che avrà una croce più grossa della tua”. È vero. Con il calcio non ho smesso. Ho continuato a testa alta, come in tutto il periodo della malattia di mamma e papà.

Mamma e papà

Era il 2013. Prima è arrivato il tumore al seno della mamma. Qualche mese dopo hanno diagnosticato a papà un tumore al colon e allo stomaco. Avevo 22 anni. Le responsabilità erano cambiate. Sono dovuto crescere, non avevo alternative. Dovevo aiutarli, prendermi cura di loro. Ogni domenica dopo le partite andavo a trovarli negli ospedali dove erano ricoverati. Nel 2018 mamma ha avuto una ricaduta e papà un’ischemia cerebrale e si è ritrovato in sedia a rotelle. Lei si è trovata a dover riaffrontare lo stesso percorso per la seconda volta e con un tumore che si era ripresentato in modo più aggressivo. Aveva perso il seno, i capelli e la sensibilità delle dita e aveva 155 punti sul petto. Lui, invece, non poteva più camminare. È stato difficile. Per loro, per chi stava al loro fianco. Con grande dignità sono stato con loro, li ho aiutati. Ero tornato dalla Romania, la Juve mi aveva permesso di allenarmi con l’U23. Portavo mamma a fare la chemio, andavo al campo, tornavo a prenderla per portarla a casa. Nel frattempo seguivo papà. Nel febbraio 2022, la mattina del derby contro il Modena, mi ha chiamato mio fratello: “Mamma ha un dolore forte al petto”. Dopo gli esami si era capito che la situazione era peggiorata. Aveva delle macchie estese. Dopo un anno e mezzo se n’è andata. Papà poco dopo è andato in una RSA, lo sentivo tutti i giorni. È morto per una infezione nel 2023. In un anno e mezzo ho perso entrambi. Sono cose che succedono a tutti, ma mancano. Il tumore è pesante. Aggressivo, spesso non sai quanto possa espandersi, vivi con l’incertezza e la paura. Non avevo mai visto nessuno morire. Ma è la vita. Bisogna accettarlo.

Sono stato obbligato a crescere prima. Non ho mai pensato di buttarmi giù, non volevo essere un peso. Volevo essere una risorsa, una coccola, una carezza, una parola dolce. Ho una corazza addosso dopo tutto questo che non mi permette più di provare le cose come prima. Faccio più fatica a emozionarmi. Se penso a loro mi vengono in mente due immagini. Una su papà. Dopo la prima operazione allo stomaco aveva perso tanto peso. Prima dell’intervento mi aveva promesso che sarebbe tornato come prima, che avrebbe reagito. Ma sapevo che sarebbe stato difficile per com’era fatto. Infatti, si è lasciato andare. Dopo due settimane lo vedevo fermo sul letto di ospedale. Il dottore mi aveva detto che il suo problema non era tanto fisico, ma psicologico. Non voleva reagire. Non mangiava. L’ho affrontato. “Io qua non torno più. Mi avevi fatto una promessa. Ti do un’ultima possibilità. Tra due settimane torno, se non ti vedo camminare non tornerò”. Quando sono tornato si era risollevato. L’avevo toccato nell’orgoglio. Di mamma invece ho un altro ricordo speciale. “Fausto promettimi che quando diventerai un calciatore e avrai dei bambini avrai una villetta con giardino”. Il suo sogno era di avere una casa indipendente, noi eravamo cresciuti in un piccolo appartamento. Pochi mesi prima della sua morte, ho comprato una casa. Dopo una chemio l’ho portata a sorpresa a fargliela vedere. “Ti ho comprato la villa”. Il suo sogno si era realizzato.

Famiglia

Ogni tanto mi ritrovo da solo a ripensare a tutto questo. A volte piango, mi sfogo. Ci chiacchiero, mi viene ancora da alzare il telefono per chiamarli. Lo facevo sempre, tutte le sere. Penso siano emozioni positive. E io vivo di queste emozioni. E la famiglia è al centro delle mie emozioni e della mia vita. Ne è l’essenza. Ho avuto la fortuna di incontrare mia moglie, di avere due figli. Cerco di trasmettere loro il senso del sacrificio, del lavoro, del rispetto e la semplicità del viaggio. Nella nostra società si rischia di perdere il senso delle cose. È un privilegio essere padre, cambia la prospettiva del tuo sguardo.

Cerco di trasmettere quei valori che mi hanno reso la persona che sono oggi. Nella vita e in campo. Di quel campo sento ancora l’esigenza. La voglia di essere protagonista dopo le bellissime esperienze di Reggio e Vicenza. Mi sento bene. Giocherò e vedrò giocare i miei figli. È una sensazione unica poterci camminare insieme. Ora sono io ad accompagnarli al campo per gli allenamenti e osservarli da fuori alla rete. Come mio padre in quella domenica. Quel campetto. Mi passa tutto davanti agli occhi. I palloni sulle rotaie, la Juve, i miei genitori, la mia famiglia, il calcio. Vita.